mercoledì 4 febbraio 2009

Della vita, della morte, del sottile confine fra di esse e di dichiarazioni mancate

Gli umani italiani (o quantomeno i loro giornali) seguono in queste ore con apprensione, minuto per minuto, gli sviluppi di un evento prevedibile ma pur sempre tragico: la morte di un esemplare femmina della loro specie. Quello che a noi gatti sembra più che naturale, come la sofferenza e la morte, è divenuto, nel corso dell'evoluzione umana dall'Australopithecus all'attuale versione vastamente spellicciata, qualcosa che non finisce di sorprenderli.

Credo che questo sia un effetto collaterale del distacco che l'uomo ha operato dalla natura e dalla necessità di provvedere a se stesso e al suo gruppo usando le facoltà del corpo come l'agilità, il fiuto, la vista, l'udito, la prontezza di riflessi e l'istinto. Un essere umano di circa ottant'anni di solito ha difficoltà a muoversi, ci sente e vede poco, è lento di riflessi e disorientato. Eppure non ha problemi a procacciarsi cibo in abbondanza, se è armato di una carta di credito e riesce almeno a scendere nella riserva di caccia sotto casa, che chiama supermercato. È dunque comprensibile che un tale individuo arrivi a sottovalutare e anche a ignorare il decadimento del proprio corpo. La morte finisce allora per coglierlo di sorpresa.

Per noi gatti è diverso. È vero che molti di noi sono viziati più di tanti esseri umani, ma non per questo diamo nulla per scontato. Certo mangiamo dalla scodella che ci porge la mano umana, ma non escludiamo mai la possibilità di poterci trovare da un giorno all'altro per strada a far compagnia a tanti nostri simili che se la cavano dignitosamente anche da soli. D'altra parte gli esseri umani sono così imprevedibili che non abbiamo altra scelta. Stiamo pertanto sempre attenti alle nostre facoltà, le mettiamo continuamente alla prova col gioco e, se ne abbiamo la fortuna, anche con escursioni notturne nel verde vicino a casa. Invecchiando ci rendiamo conto di andarcene gradualmente. Accettiamo che la morte incominci ad accompagnarci molto prima del momento in cui cessiamo di respirare. Un gatto conscio di non avere più la capacità di badare a se stesso e di essere ormai completamente dipendente dai suoi coinquilini eretti, si considera già morto.

Per gli esseri umani è tutt'altro che così. Essi si affannano a dibattere sulle definizioni della morte, all'inseguimento dell'esatto istante in cui si consumerebbe questo illusorio passaggio. A volte si fanno prendere dal panico per l'eventualità che cessi la propria esistenza e non si accorgono di essere già più morti che vivi. Ma così sono loro: per ogni cosa hanno bisogno di istruzioni per l'uso, poste nero su bianco, e tutto quello che non è coperto da esse non esiste, così come la voce della loro pancia.

Uno dei compiti più importanti che assegnano alla loro tecnologia è quello di spostare il più avanti possibile l'istante del passaggio, con ogni mezzo e ad ogni costo. Ma così facendo, la differenza fra vita, non-vita e morte nel loro immaginario si è assottigliata col tempo sempre di più, e la ricerca del confine fra vita e morte è diventata un puzzle per accademici. Anticamente era il corpo a segnare il confine, in modo indiscutibile. Quando il cuore smetteva di battere, il corpo veniva sepolto. Ma oggi l'uomo è in grado di tenere in vita i suoi simili montandogli nel petto un cuore di plastica. Un tempo il respiro indicava la presenza di vita. Oggi il respiro può essere forzato con una macchina chiamata polmone d'acciaio. Il nuovo confine si è spostato dal cuore e dal respiro al cervello: dopo centinaia d'anni di sforzo intellettuale, quest'organo è arrivato alla conclusione di essere lui il vero centro. Almeno fino al momento in cui l'uomo con la sua tecnologia non sarà in grado di dotarsi anche di un cervello artificiale.

La poverina che è inconsapevolmente caduta sotto l'attenzione dell'intero paese, che ora litiga fra chi la dichiara ancora viva e quelli che la ritengono già morta, giace da diciassette anni in un letto senza interagire per nulla con il mondo circostante. Viene nutrita e dissetata con dei tubicini. Il suo cuore batte, il suo corpo respira. Se fosse una gatta, il suo cuore e il suo respiro riposerebbero da diciassette anni. Ma è una donna, e l'ossessione dei suoi simili per il fantomatico istante del passaggio di confine la condanna a continuare a respirare in un letto non suo, con i tubicini che le entrano nel corpo e una nazione che parla di lei alle sue spalle, e che ne interpreta desideri, pensieri e speranze senza averla mai conosciuta.

È curioso osservare come per coerenza col suo delirio antropocentrico l'uomo abbia finito per negarsi dei privilegi che concede con disinvoltura a noi animali. Se io dovessi finire mai nello stato della povera Eluana, o mi venisse diagnosticato un male incurabile, potrei contare sull'aiuto del veterinario per cessare di vivere in tempo, risparmiandomi sofferenze inutili e un ultimo scorcio di vita solo apparente.

Ci sono poi molti esseri umani che non solo ignorano i segni della vecchiaia, ma cercano addirittura di annullarli con interventi tecnologici sul proprio corpo. Così facendo non ritardano di un minuto la loro ultima ora, ma a volte riescono almeno ad allontanarne il pensiero, dalla loro mente e da quella dei loro simili. È risaputo che il mio coinquilino faccia parte di questa categoria di persone; egli d'altra parte non ne fà mistero. Si è fatto tirare la pelle della faccia per cancellare le rughe. E si è fatto incollare sul suo cranio spellicciato un vello sintetico simile al velluto del divano del nostro soggiorno. Ma quando il mio pensiero passa soffiando lungo i meandri intricati del suo cervello per fargli assolvere questo o quel compito al mio posto, io vedo ovunque una vecchiaia che ha già il colore della morte.

Ma lui di questo non si accorge. È uno abituato a possedere molto di ciò che desidera e a controllare tutto ciò che possiede, e si è dimenticato che non si può controllare ciò che non si possiede. E "la vita non è data in proprietà a nessuno, bensì in usufrutto a tutti". Per questo non c'è dubbio che anche a lui spetterà una grande sorpresa, quando verrà il momento.

Due giorni fa Telesina è passato di qui per preparare insieme al mio compagno un commento sul fatto del giorno. Con i giornali che non parlano d'altro e tante dichiarazioni sull'argomento quanti sono i politici, i medici, i religiosi e la gente di spettacolo del nostro Paese, sarebbe stato inopportuno che proprio il mio compagno non rilasciasse dichiarazioni. Telesina ha tentato un approccio a metà fra la maieutica e il teatro d'improvvisazione e gli ha chiesto un commento spontaneo. Abbiamo impiegato una decina di minuti per farlo entrare nel problema, Telesina spiegandogli in modo semplice il caso, io massaggiandogli telepaticamente i neuroni. Il suo primo commento è stato: "Se andassi io con Apicella a cantarle una serenata salterebbe subito in piedi dal letto. Aspetta che lo chiamo".

Telesina mi ha guardato con un sorriso a denti stretti (incomincio a pensare che sospetti qualcosa su di me), poi ha biascicato: "Bellissima battuta. Ma, lo capisci, non si può dire ai giornali. Sai che non hanno tutti il tuo senso dell'umorismo. Ti criticherebbero". "Perché parli di umorismo?", ha fatto lui corrucciato, "pensi stia scherzando?". "No, ma vedi", ha glissato il diplomatico, "perché non provi con una metafora calcistica? Di solito le tue vengono molto apprezzate". Il mio coinquilino ci ha pensato su un attimo, poi ha sparato: "Ci vuole un attacco a tre punte". È seguito un silenzio. "La regola del fuorigioco va riformata". Silenzio più lungo. "Più turnover... la panchina lunga... il rigore non c'era...".

"Ok", lo ha interrotto allora Telesina, "non male. E se provassi invece a fare una dichiarazione da padre? Cosa faresti, cosa diresti se una delle tue figlie si trovasse in quelle condizioni?". Non era ancora finita la frase che il mio compagno già aveva scatenato una raffica di imprecazioni in brianzolo mentre si infilava entrambe le mani dentro i pantaloni e ne massaggiava il contenuto vigorosamente. Quando è tornata la calma, Telesina ha concluso: "Sai cosa ti dico? Forse la cosa migliore sarebbe non dire niente. Tutti si aspettano un commento: tu sorprendili. Non dire niente, proprio niente. Nemmeno che è una questione privata e di coscienza personale. Taci e basta". E così è stato.

1 commento:

  1. Un Gatto soriano
    diceva a un barbone:
    Nun porto rispetto
    nemmanco ar padrone,
    perché a l'occasione
    je sgraffio la mano;
    ma tu che lo lecchi
    te becchi le bòtte:
    te mena, te sfotte,
    te mette in catena
    cór muso rinchiuso
    e un cerchio cór bollo
    sull'osso der collo.
    Seconno la moda
    te taja li ricci,
    te spunta la coda...
    che belli capricci!
    Io, guarda, so' un Gatto,
    so' un ladro, lo dico:
    ma a me nun s'azzarda
    de famme 'ste cose...-
    Er Cane rispose:
    Ma io...je so' amico!


    La scrisse un umano molto autorevole, che tutto er córe de Roma ricorda, onora e ammira.
    Nell'omonima piazza capitolina a lui intitolata, spesso si intravede qualce sparuto e spelacchiato collega felino, soprattutto nelle tarde ore serali, quando il caos turistico dell'umanitá caciaróna lascia un po' di spazio al silenzio trasteverino...

    Mi presento, io sono... o meglio, ero, un cuore felino che giá da un paio di anni ha velocemente varcato quel confine sul quale giace cosí a lungo Eluana... È cosí, per noi cuori zoologici risulta tanto semplice quanto indiscutibile varcare quella soglia. Semplicemente perché è Madre Natura che ce lo impone e a nessuno è mai venuto in mente di metterlo in discussione.

    Ricordo una volta che un umano che si prese cura di me, tanto tempo fa, un giorno, rientró a casa ironicamente irritato. Aveva sentito dire da qualcuno che gli animali non hanno un anima.
    Il divano sul quale pisolavo era comodo e molto caldo. Ricordo che ripresi sonno quasi subito...

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