domenica 29 marzo 2009

Lo schiavo della libertà

Sono due sere che si va ripetendo la stessa scena: il mio coinquilino torna a casa semi-distrutto; arranca fino all'ingresso sostenuto dai suoi gorilla; poi, appena lo vede, si aggrappa al fido Ambrogio, che lo trascina fino al divano; lì piomba in un sonno apparente, disturbato da mugolii. Dopo circa mezz'ora i lamenti incominciano a strutturarsi in frasi, che diventano via via sempre meno sconclusionate. Frammenti di un discorso si cristallizzano: ogni volta è la stessa confessione a mamma Rosa.

"Sono stanco, ma'", ha sospirato ieri sera il meschino, che così accartocciato in posizione fetale sembrava più piccolo e vecchio del solito. "Stanco di recitare per gli altri. Stanco di mostrare i miei trentadue denti anche quando i rialzi interni delle scarpe ortopediche mi costringono a camminare sugli alluci, infliggendomi i dolori atroci del piede di loto. Sono stanco di organizzare feste per donare un'illusione di felicità e speranza a un popolo eternamente bambino e senza risorse. Stanco di farmi idolatrare come un Cesare, stanco di essere il soggetto di ogni domanda e ogni risposta; il chiodo fisso, nel bene e nel male, di tutti gli Italiani. Sono stanco di sentire ripetere le mie parole come un'eco da tutti i miei deputati, i senatori, gli aspiranti portaborse, dai nuovi Mastella ragazzini e perfino dalle bonazze che ho emancipato istituzionalmente per salvarle dalla condanna delle prime rughe".

"Sono stanco delle rappresentazioni appiccicose del consenso, stanco di quelle studiate del dissenso, stanco di recitare la parte dell'imprenditore di successo quando da anni in mezzo ai debiti mi tocca combattere come un leone contro leggi liberticide che attentano all'iniziativa privata dei cittadini più creativi, come me. La politica mi fa schifo, ma se non ci fossi stato io, nessuno avrebbe salvato me e le mie aziende dallo Stato-mostro, dai meccanismi comunisti della giustizia che guardano alla forma e non alla sostanza, al rispetto di leggi umane soggettive anziché alla creazione di ricchezza e benessere oggettivi".

"Sono stanco di abbracciare e baciare chi non mette al primo posto la salute delle mie aziende e del sottoscritto solo per dimostrare che tutti mi sono amici e che viviamo in un paese che, eccettuando i bolscevichi, i boia e i coglioni, è unito in un sorriso di cordialità un po' ebete ma molto genuino, come quello di Gerry Scotti. Sono stanco di fare discorsi, far quadrare i bilanci, accontentare sia il papa tedesco che il popolo italiano, corteggiare ministre finlandesi e ascoltare rattrappiti lombardi. Se questo è il prezzo della globalizzazione, io non lo voglio più pagare".

"Invidio Veltroni, che dopo di me è il parlamentare più ricco ma nonostante ciò ha potuto ugualmente ritirarsi a vita privata e ora dedica il suo tempo a scrivere la biografia di Obama raccontata dal punto di vista di un ragazzetto di borgata che sogna di diventare un giorno premier. Anch'io vorrei scomparire dai palcoscenici politici di tutto il mondo e poter dire una volta tanto tutto quello che mi esce spontaneamente dalla bocca, anche se non è stato frullato del tutto nel mio cervello, senza dovermi poi vedere preso per il culo dai giornali dell'orbe terracqueo".

A quel punto si è alzato e claudicando ha raggiunto la toeletta di palissandro per la rituale funzione dello struccamento. Mentre si detergerva il cerone, già un po' disfatto per il pomiciamento con Fini e lo struscio facciale sul divano, il veder riaffiorare il suo vero volto nello specchio lo ha risvegliato del tutto. È stato come se lo investisse il coraggio del maratoneta all'ultimo chilometro di gara.

"Mammina, tu me lo dicevi sempre: «lasa stà, faà no el matt, sta no lì a entraà in pulitica che te capiset un caso! Sta a cà tua e pensa a la tò mama che l'è vegia!». Le tue parole, così affettuose e protettive, le parole di una mamma verso il figlio che ha il vizio di sopravvalutarsi sempre, mi avrebbero potuto garantire un esilio dorato come quello dell'amico Bettino. Ma i miei beni non erano modesti e liquidi come i suoi, e una fuga mi avrebbe richiesto preparativi troppo lunghi, mentre i giudici di Milano avevano già scoperto diverse mie ideucce imprenditoriali che non si inquadravano nella loro mentalità giuridica".

"Forse fu follia, e neanche tanto lucida, impelagarmi in questa quindicennale recita da messia, da salvatore della patria, da crociato contro dei comunisti che ormai erano quasi estinti. Ma mai avrei pensato che sarebbe durata così tanto. Io volevo solo guadagnare tempo; ora mi ritrovo l'unico uomo nel paese a cui gli Italiani possano o vogliano credere. Da anni sto cercando disperatamente giovani professionisti della politica a cui passare il testimone, ma non ci sono più gli Andreotti, i Fanfani, i Cossiga. Mi si presentano davanti solo le mezze tacchette o le ragazze brave a letto. Gente che sa solo ripetere gli slogan che io ho sempre ripetuto per prendere tempo, dando l'impressione di crederci sul serio. Le nuove generazioni sono vuote: hanno preso il travestimento ideologico che mi serviva per nascondere dei piccoli tatticismi opportunistici per una vera idea politica. Ma non capiscono che non si può guidare un paese per più di quindici anni semplicemente attaccando i giudici e i comunisti".

"Mamma, ho paura che non potrò mai andare in pensione. Non vedrò mai il mio successore. Il pensarci mi dà lo stesso fremito di paura che oggi solo i papi possono provare. Ormai sono diventato storia. Non volevo, volevo solo essere lasciato in pace. Ma ormai è troppo tardi".

Sono state le sue ultime parole ieri sera. Stamattina si è svegliato di buon'ora. Ha ripetuto davanti allo specchio il discorso che avrebbe tenuto oggi, provando tutte le pose da statista. Ha fatto esercizi ai muscoli della bocca per riuscire a esporre l'intera dentatura più volte al minuto. Poi è andato al congresso. È tornato poco fa, meno stanco del solito. Si è stravaccato sul divano e ha ricominciato la solfa: "mamma, che schifo di lavoro!".

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